Uno schizzo a matita una doppia cupola rotonda il campanile solitario e tetti spioventi, schizzo di un fanciullo sognatore? No, uno dei tanti quadri di Francesco Speranza.
Il 2 ottobre 1984, a Santo Spirito pochi passi da Bari, nella sua casa alta sul porticciolo vicino alle case dei pescatori moriva l’artista Speranza.
Nato Bitonto, tra nove fratelli e sorelle, una decina di bocche da sfamare, figlio di un sarto e di una casalinga, sognava un mondo diverso, quando partendo verso la nebbia di Milano, disse addio al suo paese natio.
Il suo tracciato di pittura era quello del Beato Angelico, alias Giovanni da Fiesole, seguendo il suo cammino il Gobbo di Bitonto diventò celebre per le sue scenografie paesane.
Sulle sue tele con piazze assolate, giardini dove bimbi si trastullano con la palla o portano a passo aquiloni, sagrati di chiese deserti o balconi colmi di panni, fermare donne sull’uscio di casa, a far due chiacchiere con le vicine, nei pomeriggi sereni di luglio.
La sua tavolozza, tenuta su terre d’ocra e bruni da romantico lombardo, parlava del silenzio del Sud, lentamente, le sue prospettive si facevano più ariose e magiche, alternando visioni fantastiche, alla realtà costante velata da una ingenuità filtrata tra sogno e memoria di cose conosciute.
Come una rondine svernava in Puglia, dove l’aria mite e l’immancabile spiraglio di sole scaldava il suo cuore. Metodicamente si mise ad illustrare chiese, castelli, piazze e marine, una ricerca segnati da minuziosi appunti, in cui l’irta, sottile e frenetica scrittura, entrava negli schizzi.
Un ultimo incontro dell’artista Francesco Speranza, con papa Wojtyia, un incontro pastorale, del quale fervidamente Raffaele Carrieri, scrisse di lui: “Speranza ci dà speranza” una speranza, che ci darà serenità, ogni qualvolta il nostro sguardo si poserà su un quadro di Francesco Speranza.
Da pochi mesi aveva definitivamente lasciato Milano, la città che lo aveva accolto con i suoi pochi bagagli e tanti sogni.
Anna Sciacovelli