La scarpa classica décolleté faceva furore, nei primi anni del 1937/1942, poi la guerra stravolse tutte le regole di vita, le fragili Cenerentole, indossarono anche scarponi militari, pur di coprire i piedi e salvarli dai vetri e dai detriti della strada.
Sono trascorsi tanti e tanti anni, da questo episodio di vita vissuta. In uno stipo a muro, un paio di classiche décolleté di raso grigio, nel grande armadio, un abito dello stesso colore con una lunga frangia mi tentavano occhieggiando, il mio sguardo andava dall’armadio allo stipo, sia l’abito che le scarpe m’invitavano a indossare e nel contempo calzare quelle scarpe, i miei cinque anni, con un equilibrio precario e instabile mi faceva barcollare, la curiosità infantile mi spinse a provare sia le scarpe, che l’abito.
Per non essere sola, chiamai la mia amica del cuore Elisabetta, la quale curiosa, iniziò a toccare il profumo di mia madre, una boccetta rosa con un profumo intenso, che mio padre usava portare sempre dai lunghi viaggi in America, o in Estremo Oriente, essendo nocchiere di bordo, sulle grande navi mercantili.
Cercai di prendere l’abito con la frangia per indossarlo, ma era posto sulla gruccia e avvolto in un ampio foglio di carta velina, con garbo accostai una sedia, lo presi e lo posai sul lettone, tolsi gli spilli e con le mani lo stirai, sul lettone la seta scivolava io testarda lo infilai sopra il vestito che avevo.
Meraviglia, scoprii il fruscio della seta, la sua leggerezza e la duttilità dell’abito, mi faceva impazzire la frangia morbida perfetta, che copriva e scopriva le mie lunghe gambe.
Cercai d’infilarmi le scarpe con noncuranza, mi sembrava di essere salita su di un trespolo per pappagalli, mi mancava l’equilibrio e incespicavo, mentre la frangia dispettosa, avvolgeva le mie gambe e non mi permetteva di fare più di un passo.
Il grande specchio m’invitava a continuare la vestizione, un cappello con la mezza veletta, finì sul mio capo, arrotolai le trecce e infilai il cappello la veletta scendeva a coprire quasi completamente gli occhi, non vedevo più nulla, non convinta di quello spettacolo ricordai il ventaglio di seta cinese, con disegni di antiche dame sul diritto, un rosso e spaventoso drago campeggiava sul rovescio del ventaglio, l’astuccio che lo conteneva non voleva aprirsi, i colori sgargianti facevano capolino dal contenitore che resisteva alle mie piccole mani, infine infilai i guanti, ero pronta per guardarmi allo specchio, contavo i passi, che mi separavano dallo stesso, appena cinque.
Al terzo passo, un capitombolo, la lunga frangia mi aveva fatto inciampare, la veletta era caduta sugli occhi, oscurandomi la giusta via del tragitto, avevo urtato il naso che iniziò a sbuffare sangue, avevo rovinato la veletta, l’abito e le scarpe, il mio viso coperto dal talco sembrava il volto di un clown, le labbra color amaranto, spiccavano sul mio volto impaurito e pallido.
Era terminata molto male, l’avventura della vestizione di una geisha , in seguito alla caduta era spuntato un bernoccolo sulla fronte e più il tempo passava, più si gonfiava distorcendomi il volto.
I tacchi alti, delle décolleté, avevano dato il colpo di grazia alla situazione e tradito il mio equilibrio già precario.
Spuntarono le lacrime, che fecero scempio del mio viso, tra borotalco, profumo e rossetto sembravo un antiquato e slavato arlecchino.
Un ricordo indelebile di una bimba, che voleva indossare i panni di una donna, con la mia amica Elisabetta, oggi, entrambe nonne, spesso rinnoviamo il ricordo di quella vestizione finita male.
Il ritorno improvviso di mia nonna, mise fine sia alla vestizione, che alla distruzione del vestito di seta e delle classiche scarpe décolleté.
Anna Sciacovelli