In cerca di un riconoscimento poetico, Campana scende dalla sua città natale Marradi, a Firenze. A Bologna frequenta la facoltà di chimica dichiarando apertamente “non la capisco affatto”. Si sposta a Firenze e cerca di avere, nel sacro tempio delle Giubbe Rosse un contatto coi padrini della cultura del tempo.
Soffre di claustrofobia e i ragazzini del paese lo deridono, tanto che ne ha picchiato uno con una chiave inglese spaccandogli il capo, per cui l’hanno messo in manicomio(ne uscirà con l’etichetta di impulsivamente irritabile).
Arriva a Firenze una gelida mattina del 1913; aspetta seduto sul divanetto nero della redazione di <Lacerba>, l’arrivo di Papini e Soffici. Ha percorso a piedi 60 chilometri con in tasca il quadernetto dei canti Orfici.
La penna di Soffici lo descrive in questo modo: “Senza cappotto con scarpe logore e sformate, giubba di mezzalana nocciola, pantaloni di tessuto leggero a mezza gamba, di colore giallastro, a fiorellini azzurri e rosei”.
L’incontro da’ inizio a una lunga e accanita inimicizia, ne sa qualcosa Banti, direttore de “il Telegrafo” sfidato a duello con queste singolari parole ”Voi siete un grottesco meticcio negro affatto idiota…” del manoscritto si perdono le tracce, nel mare di carte di Soffici e Dino deve riscrivere a memoria tutte le sue liriche.
Anni dopo si sfogherà con Cecchi: posso provare che Papini e Soffici sono ladri, spie vendute e vigliacchi…
Dino non è un vagabondo, un irregolare. Gira da un continente all’altro, cambiando costantemente mestiere: sterratore nella pampa, suonatore della Marina argentina, carbonaio, poliziotto, minatore, zingaro, pompiere, saltinbanco, suonatore d’organetto, venditore di stelle filanti a Odessa , fuochista, ad Amsterdam portiere, stalliere, strillone di giornali cantante, manovale, ma resta un poeta.
Arrestato a Novara, Bruxelles, Livorno e Parma per accattonaggio e ubriachezza molesta, rinchiuso nei manicomi di Imola,Tournai, Firenze e Castel Pulci, distrugge la sua vita in un delirio punitivo per aver troppo sognato.
Non è un professionista delle lettere, ma non è incolto, vive con le trenta lire al mese, che gli spedisce il padre direttore didattico; è geloso della madre e del fratellino. Non si ama. Nel 1914 escono i Canti Orfici, fatti comporre dal padre presso un tipografo di Marradi (mille copie, due lire l’una). Il primo a occuparsene è Bino Binazzi, che li loda, sul “Giornale del Mattino” poi silenzio sino alla morte. Tra il 1916- 1917 si strombazza al rapporto tra la matura Sibilla Aleramo e l’inquieto Dino, un amore travolgente, quasi un delirio selvaggio, seguito da con curiosa ironia, dall’Italia letteraria, finito tra insulti e botte. Riformato, nel 1917 per alterazione celebrale progressiva, rinchiuso in manicomio nel gennaio del 1918, non riesce più a parlare sino alla morte, che avverrà a Scandicci il giorno del 1 marzo del 1932.
Anna Sciacovelli