In ogni ambito economico e lavorativo esiste la concorrenza, ovvero la competizione tra due soggetti che operano nello stesso settore oppure si rivolgono alla medesima tipologia di clientela. La concorrenza può rappresentare spesso un valore aggiunto, in quanto in grado di stimolare lo sviluppo ulteriore di un determinato settore o di una ‘fetta’ di mercato; più in generale, viene accettata di buon grado, soprattutto dal legislatore, in quanto in grado di prevenire la formazioni dei monopoli. Di contro, se la legge prevede anche i casi in cui la competizione si configura come ‘sleale’.
Cos’è la concorrenza sleale
Gli atti di concorrenza sleale vengono elencati nell’articolo 2598 del Codice Civile; in particolare, l’uso di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri” o l’imitazione servile di prodotti di proprietà di un concorrente.
Il dispositivo stabilisce che gli atti di concorrenza sleale comprendono anche la diffusione di “notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente“. Più un generale, la concorrenza sleale si configura quando un soggetto “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda“.
A proposito di competizione non corretta, va citato anche il ‘patto di non concorrenza‘ (regolamentato dall’articolo 2125 del Codice Civile). Si tratta di un vincolo, che dura cinque anni per i dirigenti e tre anni in tutti gli altri casi. In sostanza, esso stabilisce che il dipendente, una volta lasciata l’azienda, non può fare concorrenza all’ex datore di lavoro per un periodo di tre anni (cinque nel caso si tratti di un dirigente). Il patto si configura quindi come un vincolo, valido solo se prodotto in forma scritta e solo se riporta precisi termini di tempo, spazio e luogo.
La concorrenza sleale dei soci: cos’è e come tutelarsi
Il titolare di un’azienda ha di certo interesse a tutelare la propria attività, salvaguardandola da azioni concorrenziali sleali; queste ultime possono arrivare anche dall’interno dell’azienda stessa, ed in particolare dai soci.
La concorrenza sleale da parte di un socio si concretizza nel momento in cui quest’ultimo diffonde o condivide dati ed informazioni riservate con un soggetto terzo, recando un danno all’azienda presso la quale lavora (una condotta di questo tipo può tradursi in un calo dei profitti e nella perdita di clienti abituali); sfruttando la propria posizione privilegiata, un socio può accedere a prospetti di bilancio, strategie di mercato ed altri dati sensibili, cruciali per l’attività aziendale.
Un comportamento simile da parte di un socio rappresenta una condotta punibile, in quanto egli viene meno all’obbligo di fedeltà sancito dall’articolo 2105 del Codice Civile: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio“.
Si tratta, quindi, di un caso in cui il socio può essere sanzionato con un provvedimento disciplinare che, in casi particolarmente gravi, può concretizzarsi nell’interruzione del rapporto di lavoro. Qualora il provvedimento venga poi impugnato e si traduca in un’azione legale, il datore di lavoro è chiamato a sobbarcarsi il cosiddetto ‘onere di prova’, ossia produrre le prove che motivino la fine del rapporto lavorativo. Per fare ciò egli – anche tramite un legale rappresentante – può dare mandato ad un’agenzia di investigazioni private specializzata in indagini aziendali, oppure richiedere una consulenza ad operatori del settore presenti anche online con il proprio portale di riferimento, come ad esempio www.inside.agency.