Giambattista Marino, nato a Napoli nel 1569 primo di sette tra sorelle e fratelli, da un padre avvocato che avrebbe dovuto seguire le sue orme ma, Marino non era fatto per codici e pandette.
Esuberante, focoso, sanguigno, amava la bella vita, le belle donne, la buona tavola e il gioco. Frequentava taverne e bordelli, amava far bisboccia con pochi amici sino all’alba e spesso si ritrovava nelle zuffe più strane. Dal fisico aitante la fronte alta e due occhi color di cielo celesti e brillanti un bel volto per un giovane di appena vent’anni, da napoletano qual era, si vestiva con ricercata eleganza, “à la page, ”anche se il padre, lo teneva a stecchetto, per sentirsi indipendente e raggranellare qualche soldo scriveva versi su ordinazione, l’amore era l’argomento più consono al personaggio e ne sollecitata la vena poetica.
Le Dame di corte facevano a gara per ospitarlo, non avendo grandi risorse fece molti debiti, a soli ventuno anni lasciò Napoli e andò in cerca di un mecenate, lo trovò a Bovino un signorotto che in cambio di elogi e panegirici gli forniva vitto e alloggio.
Marino non si accontentava di un piatto di minestra, voleva riconoscimenti e onori.
Nel 1592, presso la corte di don Matteo di Capua, principe di Conca, dove si dava convegno il fior fiore, dell’intellighenzia napoletana e le più belle donne del Regno. Don Matteo era uno splendido patrono, aveva mani bucate, amava la cultura e s’intendeva d’arte.
Giambattista restò presso di lui alcuni anni, riverito e trattato alla pari. Un giorno improvvisamente fu imprigionato, per sodomia si diceva, altri invece asserivano, per aver sedotto la figlia di un notabile locale, essendo la stessa morta in seguito all’aborto, il padre aveva chiesto e ottenuto la punizione del poeta. Dopo diverso tempo fu liberato.
Nel 1600 per il giubileo di Clemente VIII, Don Matteo lo portò a Roma, dove lo fece imprigionare di nuovo sotto l’accusa di aver sottratto alla giustizia un amico. Vociferavano che l’amico avesse ucciso un servo.
Deciso Marino preferì evadere, in suo aiuto un certo monsignor Melchiorre Crescenzio, che aveva letto i suoi versi, gli dette l’ospitalità nel proprio palazzo e lo rifocillò.
Nell’Urbe Giambattista si sentì a proprio agio. Donne, letterati, protettori, ce n’erano a iosa e viveva allegramente, ogni tanto il crescenzia gli pagava anche un viaggetto a Siena Firenze Padova e Venezia.
Nel 1602 cambiò padrone mettendosi alle dipendenze del Cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII. Il Cardinale era uno degli uomini più potenti della città e il Marino diventò il poeta più in vista e il più conteso insomma incarnava il modello italiano dell’intellettuale del Seicento, cortigiano e parassita. Da Sua Eminenza, veniva trattato proprio come un figlio. La morte dello zio del Cardinale Pietro sconvolse le abitudini di Giambattista il quale seguì il suo protettore in quel di Ravenna, una città umida malsana noiosa, tanto che al calar delle tenebre le vie si svuotavano.
Su invito di Carlo Emanuele I Giambattista si recò a Torino, dove fu nominato poeta di corte, accusato di empietà da un suo denigratore, convinse il Duca di licenziarlo, quest’ultimo una sera si appostò nei pressi della casa di Giambattista e sparò cinque pistolettate contro il poeta, il quale per fortuna non fu ferito, ma questo episodio dette la possibilità al poeta di accasarsi a Torino, dove diventò ricco, era diventato l’arbitro intellettuale della piccola corte sabauda. Da Torino va a Parigi seguendo le bizzarrie della moda e degli usi e costumi, nello stesso tempo vende i suoi libri tra i tanti il poema delle voluttà definito da tutti l’Adone e l’eco del suo successo travalicò le alpi e l’opera andò a ruba.
Decise di rientrare in Italia era il 1623 fece breve tappa a Torino dove ricevette dalle mani di Tommaso di Savoia una collana d’oro, poi giunse a Roma dove prese casa presso i Crescenzi, poi decise di rientrare a Napoli, scegliendo di abitare in via Toledo, nello stesso tempo, l’inquisizione decretò che la sua opera l’Adone fosse immorale ed esigeva una revisione dei passi più scabrosi, l’editore si limitò a purgarlo e venne ristampato. Nel marzo del 1625 fu sottoposto a un difficile intervento chirurgico. L’operazione non riuscì e il giorno dopo 25 marzo, spirò all’età di cinquantasei anni.
Tutti lo acclamarono come il genio del secolo.
Anna Sciacovelli