Vago come in un sogno per queste stanze appese sul lungotevere. Da quando ho trovato la lettera non mi appartengono più . Le ho abitate per tutta una vita, una vita con mio fratello e con le tre zie non sposate. Poi con Bruno, mio marito.
Erano tre le mie zie, per me esisteva solo una Angelica capelli biondi e occhi verdi. Veniva chiamata Lalletta un nome da bambola che mi piaceva tanto. Solo da grande cappii che era un diminutivo, forse un dispregiativo di allettata quella che stava sempre a letto perché un giorno decise che non si sarebbe alzata più dal letto e così fu. Ecco. In questa stanza grande, ariosa affacciata sul fiume giallo che un tempo era chiamato biondo, vivevano le tre zie nubili, guai a dir zitelle… Litigavano tutto il santo giorno e poi la sera facevano pace.
Mio padre il Professore serio indifferente. Dalla stanza giungevano stridii di rondini, gridolini, qualche volta risate pazze come le ragazze innamorate.
Qualsiasi cosa succedesse là dentro non era cosa che riguardasse mio padre e mia madre. I miei genitori erano i Grandi. Sopportavano con stoicismo doveri e responsabilità. Al Massimo andavano a giocare a carte il sabato sera. Quelle tre come le liquidava mia madre, passavano le giornate a far solitari, parole crociate, rebus.
Cioè a perdere tempo chè il loro di tempo non valeva nulla: “Beate loro!” Sibilava imbastendo mia madre, carica di rancore e poi perentoria “Ester infilami l’ago “ .
A me bambina pareva una vita di paradiso quella delle ziee un inferno la vitaccia di mia madre, che pativa a fare la spesa presto alla mattina e tornava carica di pacchi e spesso non aveva neanche il cappello in testa e pioveva. Toccava a me “andarle incontro”.che voleva dire prenderle i sacchi gonfi di ogni bendiddio. Certe volte dovevo portare il tè a “quelle tre”. Andavo solo a lasciare il tè, Lalletta era dolce con me. Mi accarezzava i riccioli ribelli, capelli da diavola, non come i suoi che erano di Arcangela. Le altre neanche mi degnavano di uno sguardo. Mi schifavano quasi per la poca eleganza, per quel mio correre alla maschiaccia, perché ero sempre sbrodolata e con la candela al naso. Nessuno mi badava. Mamma aveva gli occhi solo per mio fratello che ce n’aveva sempre una;la tosse convulsa, la sesta malattia e Dio sa cos’altro. E poverino qui e poverino lì. A un anno io già mangiavo spaghetti chè il latte mamma lo dava ancora a mio fratello. Io non stavo male mai, lui era sempre patito e malaticcio. “Che brutta cera”diceva mio padre e io lo immaginavo che si scioglieva con una fiammella sul capo…
Nessuno dei miei nipoti è venuto bello come lui. I miei figli sì invece, tre angeli bianchi e biondi e nessuno con i capelli da diavola che avevo io. Almeno finchè erano piccoli Che poi quando sono cresciuti i capelli si son fatti crespi e tu ti trovi a pensare Che ci fanno stì sconosciuti in casa? Con i miei tre figli e con Bruno, l’uomo che me li ha dati, ho continuato a vivere nella stessa casa che mi aveva vista bambina. Mio Padre morì che il mio primogenito non era neanche nato, mia madre e due delle zie quando nacque il secondo. Lalletta, quando venne al mondo l’ultima, che chiamai Angelica in suo onore. La mia nipotina si chiamerà Ester, come me. Se ci penso mi commuovo. Con la vecchiaia mi sono fatta fragile Piango più spesso,mulinando passi veloci dopo l’operazione all’alluce valgo nella mia grande casa vuota. Vuota anche di Bruno che ho sepolto un mese fa. Pensavo di soffrire senza Lui. Invece sono sopravissuta e vedova. Una vedova allegra. A Bruno non piaceva ridere. Era come mio padre serio. Ora l’ho sepolto e mi tocca fare tutto da sola. Molte foto e carte stanno sparendo nella spazzatura, gli abiti che aveva indossato per circa trent’anni erano stati eliminati e avevano trovato posto nella sacca nera della spazzatura e i cappotti eleganti già trovavano spazio nella grande sacca nera. In una tasca di un elegante cappotto, una lettera datata il giorno del mio matrimonio mi ritrovai a leggerla ad alta voce imitando i timbri di mia madre. La lettera cominciava con un voi poi nella terza pagina spiegava che non ero sua figlia ma figlia di Lalletta. Il mio destino era segnato. Ho iniziato a ridere, ridere, ridere, tutta sola circondata dai panni smessi di mio marito. Mi balenò un pensiero. Avevo circa sei anni periodo di carnevale, avevo indossato un panno bianco, un lungo strascico di neve mi seguiva anche mia zia Lalletta mi seguiva con un lenzuolo posato sul capo e due orbite grandi per vedere meglio. Lei mi abbracciò dicendomi siamo uguali non c’è niente da fare…” sussurrandomi Amore mio” non avevo mai sentito quelle parole dall’altra mamma.
Anna Sciacovelli