Tanti sono gli episodi strani, che avvenivano nella città di Bari, sin dal 1089, si usava l’espediente di prelevare denaro in prestito, da chi ne aveva in abbondanza, era un ripiego al quale la povera gente, pure nell’antichissima Bari, era talvolta costretta a ricorrere per sopperire alle proprie necessità.
Un esempio del genere è documentato perfino in una pergamena dell’archivio di San Nicola, datata settembre 1089, XII indizione, nel periodo cioè in cui erano appena trascorsi due anni dall’arrivo delle venerate reliquie del Vescovo proveniente da Myra.
Un povero schiavo barese chiamato Stefano figlio di Mele per ragioni che non sono dette, avevano preso a mutuo da Petracca Pelillo e Nicola Curibario, essi pure baresi, la somma di40 solidi romanati, che erano monete d’oro bizantine, ancora in corso nella nostra città.
Malgrado che ai dominatori greci fossero oramai sopravvenuti quelle normanne, da ben 18 anni.
Quel povero diavolo si era impegnato a restituire, non si sa entro quale termine, ben 120 soldi Micalati milati boni che, pur essendo forse minor valore, apparivano comunque sproporzionati all’entità del quantitativo di danaro ricevuto.
Aveva tuttavia dato pegno, ai suoi creditori, un paio di pendenti d’oppi d’oro fino, che erano appartenuti alla figlia Cecilia del Duca Roberto il Guiscardo ed erano a lui pervenuti chi sa come.
Poiché il tempo passava senza che il debito fosse estinto, Stefano pregò un bel momento i suoi creditori di accontentarsi di soli ottanta solidi, restituendogli il prezioso pegno. Fu così che il Petracca, in assenza dell’amico Nicola Curibario, decise di esaudire la preghiera, facendone redigere un pubblico atto dal notaio Leone, alla presenza di due autorevoli persone (novilium hominun), che firmarono in greco il verbale, le cui pessime condizioni di conservazione non ne consentirono la lettura.
In ogni caso, è dallo stesso, che lo schiavo versò gli ottanta soldi promessi e Petracca Pelillo gli restituì gli orecchini, offrendo ampia Garanzia di continuare a rispettare l’accordo. S’impegnò inoltre, anche in nome dell’amico assente, a non molestarlo né di persona nè per mezzo di propri dipendenti, dando facoltà allo schiavo, in caso contrario di perseguirlo anche per parte della signora Cecilia.
Nell’eventualità di violazione, dei patti così concordati egli e il collega sarebbero stati entrambi tacciati della qualifica di reprobi e avrebbero sborsato una penale di cinquanta soldi, oltre ad un’uguale cifra per pubblica ammenda, secondo l’uso dell’epoca.
Anna Sciacovelli