Tre anni fa in Grecia, avevo assaporato i cibi più strani dall’aperitivo all’anice”Ouzo” alla “Musakà” (timballo di melanzane e formaggio), dalla porchetta (gouronnopoulo) alle polpette di riso cotto, misto a carne tritata, servite in foglie di vite accartocciata chiamate (dolmades), in lingua greca sapevo dire solo sagapò, kalimera, kalispera, kalinikta, agapimù. Avevo visitato i musei di Atene, Delfi, Heraklion, visto e vissuto danze tradizionali, maneggiato la dracma per acquisti diversi, ora volevo cambiare, andare in Egitto a trovare i resti della mia bisnonna Cassandra Ginefra, sepolta nel Grande Cimitero di Alessandria. Solo al pensiero di toccare con mano quella sabbia finissima e dorata, sentivo brividi di gioia in tutto il corpo, l’emozione mi prendeva la gola. Tutti mi avevano consigliato la nave, ma la fretta di arrivare mise le ali ai piedi e preferii l’aereo. Tutti i passeggeri dovevano trovarsi alle ore 18,30 all’aeroporto di Roma- Fiumicino, per il disbrigo delle formalità, poi la partenza per l’Egitto, destinazione Cairo.
La pista sfuggiva sotto i miei occhi, come un nastro di asfalto, poi l’aereo si staccò dolcemente da terra, quasi un sospiro lieve. Guardai intorno a me, alcuni passeggeri avevano chiuso gli occhi, anch’io con gli occhi socchiusi, mi attardardai a immaginare il colore del Nilo, della sabbia, dei costumi locali, il mio pensiero si fermò sulle piramidi, sul loro significato, sul loro resistere allo scorrere del tempo. Al Cairo, avrei visitato il Museo Nazionale, che altri mi avevano descritto favoloso sotto tutti gli aspetti, avrei potuto annotare sul mio diario sensazioni personali di questo viaggio tante volte sognato ad occhi aperti. Mio malgrado mi appisolai e, quando riaprii gli occhi, l’aereo stava già percorrendo la pista di arrivo, di questa terra bella e misteriosa, accogliente e nello stesso tempo, inospitale, modernissima e antica insieme. Scesi dall’aereo, il caldo mi accolse come in un abbraccio violento e secco, poi i nostri abiti iniziarono ad appiccicarsi addosso come lenzuola umide, ma il rapido trasferimento in albergo, riportò le cose al posto giusto, una doccia d’obbligo e via per le afose strade della Capitale, meta la città vecchia.
Mi venne incontro una folla scomposta, cosmopolita, che nelle stradine, disseminate di bazar, creava in questi stretti vicoli, tanti caleidoscopi dai colori e dalle composizioni più strane. La mia bisnonna aveva tra queste stradine una bottega di merletti e bottoni, anche lei aveva commerciato contrattato e mercanteggiato con gli arabi dai visi imperscrutabili, dagli occhi furbi e dal sorriso astuto come le volpi del deserto. Nel Bazar Khan El Khalili, risalente al XII secolo, decisi di acquistare qualcosa di insolito, dopo aver guardato quasi tutta la merce esposta, mi soffermai vicino ad un piccolo tavolo tutto intarsiato con un tronco centrale che sorreggeva il piano a forma di pigna che terminava con tre gambe simili a zampe di elefante, rifinito con molta cura, dall’abbinamento perfetto, era intarsiato con corallo e avorio. L’arabo si avvicinò premuroso e, notato il mio interesse, iniziò a parlarmi velocemente nella sua lingua vantando la preziosità di quel piccolo tavolo la finezza dell’intarsio, la robustezza del legno, l’abbinamento perfetto dei colori. Era un tavolino, quello, il cui ideatore e artigiano-mi disse- che erano andati a raggiungere Allah e la loro anima sarebbe stata oltremodo felice, se avessi acquistato quel loro ultimo lavoro terreno, per la modesta cifra di diecimila piastre, egli stesso del resto sarebbe stato contento e felice di sapere che un mobile egiziano avrebbe varcato le porte dell’Italia, un paese che a lui piaceva tanto ma che le circostanze diverse, non aveva mai avuto la fortuna di conoscere. Ero frastornata, da tutto quel suo dire, mentre l’arabo parlava, posava sul tavolino ora un kalunè, una coppa di cristallo, una rosa del deserto, un vecchio e bellissimo merletto di macramè. Quell’uomo emanava un fascino strano, ben presto i profumi orientali, i vapori dell’essenze e il caldo insopportabile iniziarono a fiaccare la mia resistenza tant’è che decisi di acquistarlo. Con la rapidità inusitata l’arabo aveva già imballato per bene la merce, un ragazzo mi attendeva sulla soglia del negozio per accompagnarmi all’Helios Hotel, detti una lauta mancia, preferii prendere un taxi. Giunta in albergo decisi di aprire il pacco appoggiai il piano del tavolino sulla grande pigna centrale senza riuscirci lasciai andare e accantonai il pacco in un angolo e uscii nuovamente.
La fretta di visitare da sola la città dai cinquecento minareti, mi spinse verso la periferia tra il vociare impertinente di grandi e bambini. Piccoli beduini, seduti sulla soglia delle loro case, giocavano con dadi di alabastro e di corallo, altri con cocci di vetro si divertivano a tracciare sulla sabbia compatta delle casette sulle quali facevano rotolare i dadi, altri ancora cantavano una nenia, per far addormentare il bambino più piccolo posto in una culla di bambù, mentre nugoli di mosche ronzavano intorno zanzariera nella speranza di suggere quella goccia di latte materno che, per il rigurgito, si era fermata al lato destro delle labbra del piccolo. I giorni passarono veloci,Luxor col suo tempio dalle gigantesche colonne a forma di loto. La necropoli che custodisce le tombe reali e quelle degli alti dignitari o dei nobili, i colossi di Memnon, ossia due statue che raffigurano Armenofis III. Le statue sembrano sorgere quasi dalla terra dando ai visitatori la presenza di antiche sentinelle pronte a fermare il passo al nemico invisibile.
La meravigliosa Assuan col suo cielo blu-cobalto, posta vicina alla prima cataratta del Nilo, con le sue antiche cave da dove era estratto il granito, usato per edificare i monumenti dei Faraoni, e poi la città di Esna a circa sessanta kilometri da Luxor, col tempio dedicato a Khurm, il dio della testa di Ariete, che creò uomini e animali modellandoli con l’argilla del Nilo. Il giorno dopo la città Alessandria, perla del Mediterraneo e seconda capitale dell’Egitto, alla quale nessuno darebbe venti secoli di storia, che evidenzia ancor oggi, le sue origini greco-macedoni, con sontuose ville poste su un lungomare lungo circa venticinque chilometri. Una città viva variegata e gaia, che vive sin dalle prime luci del mattino sino a notte fonda.
Sola mi avvicinai al Cimitero, qualche parola in francese per conoscere la direzione, le date i nomi, consultare un registro una data “Ginefra Cassandra, na. 16-8-1789, m. 12-12-1888”. Era trascorso molto tempo, ero arrivata con due secoli di ritardo. Tornata a casa scartai il tavolo dall’imballaggio e cercai di appoggiarlo a terra, ma uno scatto e quasi per incanto il centro del tavolino si aprì lasciando affiorare da uno scomparto segreto, una foto ingiallita di giovane ragazza di circa trent’anni, una scritta, “Con amore a mia moglie Cassandra, Città del Cairo 20-9-1804”. Mi prese immensa emozione di gioia e tristezza piansi guardando quella foto. In quell’istante, ebbi modo di conoscere la mia antenata.
Anna Sciacovelli