Riccardo Cucchi, storica voce della radio sportiva italiana, ha rilasciato alcune dichiarazioni alla redazione di Affidabile.org. Il giornalista ha commentato il ritorno di Sarri alla Lazio e analizzato le prospettive delle big di Serie A, riflettendo anche sullo stato attuale del calcio italiano.
Nell’intervista si parla di Napoli, Juventus, Bologna, Fiorentina e Atalanta ma anche della crisi del nostro calcio, della mancanza di talenti e delle difficoltà strutturali del movimento. Nell’ultima parte, Cucchi racconta alcuni momenti chiave della sua carriera, tra radiocronache memorabili e considerazioni sul futuro del giornalismo sportivo.
Ben trovato Riccardo. Iniziamo dalla Lazio, la ‘tua’ squadra. Come giudichi il ritorno di Sarri?
Sono molto felice del ritorno di Sarri. Quando lasciò la Lazio, speravo che non fosse un addio ma soltanto un arrivederci. E ciò che è accaduto quest’estate conferma che l’allenatore non voleva concludere quell’esperienza, la considerava solo momentaneamente interrotta.
Sarri è un valore aggiunto: è uno dei pochi allenatori che sa davvero insegnare calcio. Sappiamo che la Lazio ha dei problemi e il mercato è bloccato, ma la rosa, ben amministrata da Baroni, ha sfiorato anche un piazzamento europeo. Ha lottato fino all’ultima giornata per la Champions League. Il settimo posto dimostra comunque che questa squadra ha delle potenzialità. È andata bene con Baroni, perché non pensare che con Sarri possa addirittura migliorare?
Che stagione ti aspetti?
Sarà difficile, perché Sarri dovrà operare con ciò che ha a disposizione, sapendo fin dall’inizio che non potrà chiedere miglioramenti all’organico. Questo però potrebbe anche rappresentare un vantaggio: se il gruppo si renderà disponibile a lavorare con lui, potrebbe compattarsi proprio attorno a questa difficoltà e ottenere magari più di quanto ci si aspetti.
Irregolarità a bilancio, debiti, movimenti di mercato sospetti. Diverse squadre, sia italiane che europee, sono state oggetto di indagini. Perché la Lazio sembra la più penalizzata?
Questo è un problema annoso in Italia, ma direi anche a livello internazionale. Il calcio viaggia ormai a ritmi insostenibili: l’asticella è troppo alta.
La Serie A ha un debito complessivo che si avvicina ai 5 miliardi di euro ed è un dato davvero eccessivo. È vero che il debito è distribuito in modo diverso — alcune società sono più virtuose, altre meno — ma resta un problema da affrontare con urgenza. Bisogna essere consapevoli che non si può andare avanti accumulando debiti.
Nel caso specifico della Lazio, la fragilità deriva anche da un aspetto particolare: la società non ha fatto ricorso a grossi prestiti e, paradossalmente, proprio per questo è più vulnerabile.
Per spiegarmi meglio: se un privato ha un piccolo debito con una banca, il problema è suo. Se invece il debito è molto grande, il problema è della banca, che farà di tutto per evitare che il debitore fallisca, in modo da poter rientrare del credito. Nel calcio accade esattamente questo: chi ha più debiti, spesso viene aiutato a farne altri, proprio perché chi ha prestato soldi deve garantire il rientro.
Guardando al prossimo campionato, chi vedi favorita nella corsa Scudetto?
Credo che il Napoli sia davvero la squadra favorita quest’anno e possa dominare la stagione. La società di De Laurentiis ha un progetto serio e la conferma di Conte va letta anche in questa direzione: testimonia continuità, programmazione e capacità di progettare e organizzare. E questo, secondo me, manca alle altre grandi: penso all’Inter, alla Juventus e al Milan.
D’altronde De Laurentiis ha vinto due scudetti in tre anni. Possiamo considerare la squadra una realtà consolidata tra le top o il successo è più legato a cicli brevi?
Il successo del Napoli nasce da lontano, non è stato un exploit improvviso. Il progetto è cominciato con Sarri: quella squadra giocava un calcio meraviglioso, con interpreti di alto livello. Già allora si vedeva una visione chiara.
Negli ultimi tre anni si è raggiunta la maturità del successo e credo che De Laurentiis voglia consolidare questa leadership, inserendo stabilmente il Napoli tra le grandi storiche della Serie A, accanto a Juventus, Milan e Inter.
La campagna acquisti di quest’anno mi sembra molto chiara, ben delineata. Ma soprattutto è fondamentale la conferma di un allenatore come Conte, decisivo per i successi recenti. Per questo sono fiducioso: il Napoli non è una meteora, ha tutte le carte in regola per restare tra le grandi, anche nei prossimi anni.
Può essere protagonista anche in Europa?
Sì, sappiamo che la sfida più importante quest’anno si giocherà anche fuori dai confini nazionali, ma Conte è un tecnico che ama confrontarsi con le Coppe. Quando ha accettato la sfida con il Napoli, l’anno scorso, la squadra non aveva impegni europei. Ora ha rinnovato la sua scommessa in un contesto più complesso: il Napoli dovrà affrontare la Champions League e restare competitivo anche in campionato.
Credo che possa farcela. Non solo per la qualità dell’organico, ma anche per la presenza di una guida esperta come Conte, uno che sa muoversi con intelligenza su tutti i campi, in Italia e all’estero.
Quale outsider si potrebbe inserire nella lotta scudetto?
Ci sono due realtà da tenere d’occhio: Bologna e Fiorentina. Già in passato hanno mostrato segnali importanti, e ora potrebbero inserirsi stabilmente tra le grandi.
Dove possono arrivare secondo te?
Il Bologna ha vissuto una stagione straordinaria, coronata dalla conquista della Coppa Italia: un traguardo che mancava da tempo.
È una società con una gestione limpida, guidata da un direttore sportivo di grande valore come Sartori, capace di rafforzare la squadra anche vendendo elementi pregiati. Finora il progetto ha funzionato.
Con Italiano, che considero uno dei migliori tecnici disponibili, credo che il Bologna possa ambire a qualcosa in più. Magari anche a tornare in Champions League e a giocarsi meglio la stagione rispetto a due anni fa.
E la Fiorentina?
La Fiorentina ha una gestione molto lineare. La società opera con attenzione sul mercato, sa scegliere bene i giocatori e costruire un organico competitivo anno dopo anno. Ha un pubblico critico ma appassionato. E io la vedo tra le possibili concorrenti per un posto in Champions.
Anche perché, lo ripeto, non sono convinto che Inter, Milan e Juventus siano oggi al massimo. Le loro difficoltà potrebbero diventare un vantaggio proprio per Bologna e Fiorentina.
Inter, Milan e Juventus: le hai citate più volte. Perché faticano a imporsi? Le difficoltà nei risultati sono il segnale di una crisi più profonda?
Ho l’impressione che queste squadre non abbiano le idee chiare. Non è un caso che ci siano spesso cambi di allenatore: quando si cambia guida tecnica, significa che gli obiettivi non sono stati raggiunti. Ma è anche sintomo di qualcosa di più strutturale che non funziona. L’allenatore è sempre il primo a pagare, ma spesso gli errori non sono suoi.
Guardando meglio alla Juventus, la società sembra non avere un progetto tecnico stabile né una visione dirigenziale chiara. È la fine di un’era o solo una situazione di confusione temporanea?
La confusione, in realtà, dura già da un po’. E preoccupa, perché una società come la Juventus è abituata a vincere, e non vince da parecchio tempo. Il fatto che non ci sia un’idea chiara sulla guida tecnica e che le scelte fatte finora non abbiano portato ai risultati sperati è un’ulteriore conferma di questa instabilità.
Tudor non era destinato alla conferma, lo aveva dichiarato lui stesso a fine stagione. È evidente che la Juventus puntava ad altro, probabilmente a Conte, ma quell’obiettivo non è andato a buon fine. A quel punto si è ripiegato su Tudor, per mancanza di alternative, e questo dice molto sulla confusione che regna.
Detto ciò, personalmente sono convinto che Tudor possa capire e interpretare bene l’ambiente juventino. È uno che si identifica con il club, è riconosciuto dai tifosi come uno “juventino vero”, e questo può essere un vantaggio. Ma è chiaro che per lui questa stagione rappresenterà un esame di maturità. Capiremo molto anche sul suo valore autentico come allenatore.
Veniamo all’Atalanta, una squadra che ha sorpreso nell’ultimo campionato. Può rientrare tra i top club a tutti gli effetti, aprendo un ciclo europeo, o il successo è destinato a esaurirsi nel breve periodo?
L’Atalanta ha perso un uomo fondamentale: Gian Piero Gasperini. Con questo non voglio togliere nulla alla qualità della società, che ha saputo mantenersi ad alti livelli. Ma è chiaro che Gasperini è stato l’artefice principale del miracolo atalantino.
Non so se sarà in grado di confermare quanto fatto in passato. La squadra, senza di lui, rischia di perdere qualcosa. Gasperini è un tecnico che ha segnato un’epoca, non solo a Bergamo ma anche a Genova. Ora sarà interessante vederlo a Roma, in un ambiente molto particolare, caldo, e sicuramente più difficile.
Altro caso particolare è il Lecce che sembra difendere la Serie A con risorse limitate ma idee molto precise e chiare. Può essere considerato un modello virtuoso nel calcio italiano? Cosa lo rende un esempio da seguire?
Secondo me sì, il Lecce è davvero un esempio straordinario di gestione equilibrata e sostenibile. È un modello da seguire, sotto il profilo economico e non solo. Riesce a rendere compatibili bilancio e risultati sportivi, cosa non affatto scontata nel calcio di oggi.
Valorizza i calciatori, ha un ottimo scouting, e costruisce una squadra competitiva senza fare follie. È una società ben gestita e sono molto felice che sia rimasta in Serie A proprio per questo: per la qualità del progetto e per l’esempio virtuoso che rappresenta.
Spero davvero che il suo modello possa “contagiare” anche altre realtà del nostro calcio, che — diciamocelo — non sempre sono virtuose sul piano finanziario.
Veniamo ora alla nostra Nazionale. I rigori di Italia-Francia nella finale del Mondiale 2006 sono diventati un cult, compreso l’urlo liberatorio dopo la vittoria della Nazionale. Riusciremo a vivere ancora queste emozioni in ambito azzurro?
Ti dirò la verità: sono un po’ pessimista. Dal 2006 a oggi abbiamo perso una cosa fondamentale: il talento. Se guardiamo alla formazione che Lippi portò in Germania, era composta da giocatori di straordinaria qualità. Quella fu l’ultima vera generazione di talenti italiani.
Avevamo Pirlo, Totti, Del Piero… Oggi basterebbe anche solo uno dei tre per alzare il livello della nostra Nazionale. Ma talenti così non ci sono più e il problema è strutturale, in quanto coinvolge tutto il modello calcistico italiano.
Non credo che il talento non nasca più. Credo piuttosto che non siamo più capaci di coltivarlo. Si privilegiano tattica e fisicità, ma non si lascia spazio alla creatività. I ragazzi non vengono messi nelle condizioni di potersi esprimere, e questo è un errore grave.
La Nazionale ora ha un nuovo CT, ma questo non basta. Il problema è che il nostro calcio non è più in grado di produrre giocatori di alto livello. Il “serbatoio” è carente, e questo mi preoccupa. Auguro a Gattuso ogni fortuna, ma senza materia prima, senza calciatori di qualità, sarà una situazione difficile da gestire anche per lui.
Infatti non partecipiamo ai Mondiali da ormai un decennio, anche a te sembra che non si stia facendo nulla per invertire la rotta?
Il calcio italiano è immobile. Non c’è innovazione e i risultati mancano.
Perché in Spagna non succede? Perché lì, generazione dopo generazione, continuano a nascere calciatori di altissimo livello. Pensiamo a Yamal, ma non solo: quella Nazionale ha giocatori giovanissimi che hanno vinto Mondiali ed Europei.
In Spagna il sistema calcio crede nei giovani che a 16 anni possono già esordire in prima divisione. Nel nostro paese, invece, sembra che il calcio sia solo per ‘vecchi’.
Vorrei dedicare qualche ultima domanda alle tue esperienze professionali. Qual è la tua radiocronaca più emozionante, quella dove hai lasciato il cuore?
Se parliamo di calcio, raccontare un Mondiale è un privilegio. Io c’ero, quella notte magnifica a Berlino. Ho raccontato Italia-Francia alla radio, ed è stato un sogno che si realizza. Il sogno di ogni radiocronista è poter gridare “Campioni del mondo!”. Prima di me ci erano riusciti solo due grandi: Nicolò Carosio ed Enrico Ameri.
Essere il terzo in quasi cento anni di storia della radio è stato un onore. Non per merito mio: sono stato fortunato, ho raccontato una squadra che ha compiuto un’impresa. Quella radiocronaca è sicuramente la più cara nei miei ricordi.
Tra le altre discipline, ho seguito tante Olimpiadi per la RAI. Tra tutte, ricordo la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona olimpica a Seul, nel 1988. Fu la prima medaglia d’oro italiana nella maratona e raccontarlo è stato emozionante, una delle più belle radiocronache della mia carriera.
Tra Olimpiadi e Mondiali, hai fatto immaginare lo sport a chi non lo poteva vedere. C’è stato un atleta impossibile da raccontare solo con la voce?
Sì, Diego Armando Maradona.
Una volta, con Enrico Ameri, ci chiedemmo se il nostro vocabolario fosse sufficiente per raccontare ciò che faceva in campo. Le sue giocate erano così straordinarie da sembrare indescrivibili. Forse, dicevamo, serviva un linguaggio nuovo.
Quel confronto con Ameri mi è rimasto dentro. Maradona metteva in difficoltà perfino i radiocronisti. Per raccontarlo, serviva immaginazione, creatività. Ho avuto anche la fortuna di intervistarlo e conoscerlo. È un ricordo che conservo con grande affetto.
Com’è cambiato il giornalismo sportivo in Italia? Ha ancora senso parlare di servizio pubblico nello sport?
Il giornalismo vive una situazione molto complicata e destinata a cambiare ancora. Sono passati tanti anni da quando ho iniziato, alla fine del 1979. Molte cose sono diverse oggi: il calcio, lo sport, la RAI, i giornali e, con l’arrivo dei social, anche il modo di informarsi.
Eppure credo che il mestiere del giornalista, nel suo nucleo, sia rimasto lo stesso. Enzo Biagi diceva che il giornalista è “un testimone della realtà”. E in questa frase c’è tutto.
Il giornalista deve essere testimone, anche se è molto difficile oggi rispettare questo compito. Spesso si trasforma in commentatore che impone opinioni, anziché raccontare fatti. Il testimone è imparziale, racconta ciò che l’ascoltatore, il lettore o lo spettatore non può vedere con i propri occhi.
La testimonianza è un atto di fiducia, di lealtà verso chi ascolta e, purtroppo, questo spirito a volte si perde.
Io però sono fiducioso. Credo ci siano tanti giovani talentuosi. È più difficile entrare nelle redazioni, perché gli organici si riducono, ma il talento c’è. E questo mi fa ben sperare per il futuro del giornalismo sportivo.