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Tanti lo lasciano, pochi lo ritrovano: mal di lavoro a Milano

Redazione Tgyou24.it Da Redazione Tgyou24.it
6 Febbraio 2025
In Economia
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Falsi annunci lavorativi per denunciare lo sfruttamento sul mondo del lavoro
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Il lavoro fa soffrire le persone a Milano. Un cittadino su 10 (circa 375 mila persone se si considerano a spanne tre milioni di abitanti dell’area metropolitana, ndr), si è dimesso dal proprio lavoro negli anni. Un dato per difetto visto che non tutti i residenti sono in età da lavoro. Il 60% delle persone che lo ha fatto- 225.872 persone– ha consegnato la lettera tra il primo gennaio 2023 e il 31 dicembre 2024. La ricollocazione– sia attraverso il sistema privato delle agenzie per il lavoro che quello pubblico dei centri per l’impiego- scontenta il 60% degli aspiranti; poco meno di uno su tre (33%) ha la situazione sotto controllo (risposta “sì” o “molto”), fra chi ha ritrovato un lavoro. Fra chi lo ha interrotto gli ottimisti si fermano poco sopra il 26%. Fra chi ha ritrovato un lavoro, nei due terzi dei casi lo ha accettato con una retribuzione inferiore alla precedente, mentre un terzo delle risposte riferisce valori “simili o inferiori” all’indennità percepita in precedenza da disoccupato. Insomma solo uno su cinque migliora il proprio stipendio. A un anno dalle dimissioni il 35% non ha ancora ritrovato un impiego, segno che le dimissioni erano al “buio”.

E’ il quadro che emerge dai 3.800 questionari somministrati- in quattro ondate a distanza di tre mesi tra febbraio 2022 e febbraio 2024- ai percettori di Naspi che si sono rivolti al patronato Inca Cgil. L’indagine è stata presentata stamane in Camera del lavoro da Valentina Cappelletti, segretaria Cgil Milano, Rocco Dipinto, dipartimento politiche del lavoro Cgil Milano, Antonio Verona, dipartimento mercato del lavoro Cgil Milano e Claudia Di Stefano, segretaria generale Nidil Cgil Milano, la sigla degli atipici.

IN 7.000 HANNO LASCIATO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

L’indagine sul mercato del lavoro milanese del sindacato evidenzia una crescente instabilità nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Di coloro che si sono dimessi tra il 2023 e il 2024 più di 7.000 provengono dalla pubblica amministrazione, una volta approdo sicuro. Le dimissioni coinvolgono in larga misura lavoratori sotto i 34 anni, spesso supportati dalla famiglia. L’insoddisfazione tocca gli aspetti risaputi: non solo il salario, ma in particolare la conciliazione vita-lavoro, anche se la curiosità riguarda le donne impiegate nelle forze armate, soddisfatte al 100%.

Chi è riuscito a rioccuparsi lo ha fatto cambiando qualifica professionale nel 68% dei casi e quasi la metà di questi ha cambiato tipologia contrattuale, a dimostrazione del fatto- spiega la Cgil- che il cambiamento delle condizioni di lavoro assume una priorità che va oltre il profilo, la tipologia contrattuale e la stessa stabilità lavorativa. Meno di una persona su 4 risponde di aver ricevuto della formazione durante i primi 3 mesi di ricerca del lavoro, il che rappresenta “un’incoerenza- hanno detto i sindacalisti- rispetto all’obiettivo europeo di sfruttare le Politiche attive per il lavoro per fare uscire dalla disoccupazione un soggetto nei primi 4 mesi”.

RIOCCUPATI SPESSO ‘A TERMINE‘

I rioccupati sono in prevalenza a termine: si va (quarto blocco di questionari, il più recente) da contratti di somministrazione a tempo determinato (11,9%) a un 42,6% di tempo determinato. I contratti di somministrazione a tempo indeterminato sono il 2,38%, quelli da dipendente a tempo indeterminato il 28,57%. Il lavoro autonomo è scelto dal 2,38%. Lo stipendio è inferiore al precedente nel 40,48% dei casi, uguale o simile nel 38,1. Solo il 21,43% ha migliorato la propria situazione precedente.
Le mansioni prevalenti- oltre un terzo delle dichiarate, hanno precisato i ricercatori Cgil- sono a basso valore aggiunto: la percentuale del 12,5% accomuna la quarta ondata di questionari in tre settori: commercio, turismo, ristorazione, pulizia e vigilanza, trasporto e magazzinaggio.

Ne consegue che fare progetti di vita “per te stesso/a o con altre persone” è ritenuto impossibile dal 59,52% dei rispondenti; solo il 40,48% vede la luce. Significativo anche il modo in cui si ritrova il lavoro: i bandi pubblici rappresentano solo il 3,23%, resiste bene la conoscenza all’italiana (datore conosciuto 8,96%, amici o parenti 12,19%, ex colleghi all’8,46%). Domina la piattaforma digitale al 26,12%, il curriculum via mail all’11,69% e il curriculum portato di persona al 5,72%.

L’età media dei disoccupati si aggira attorno ai 50 anni, con difficoltà di reinserimento per i lavoratori maturi. Circa il 20% degli intervistati non cerca lavoro, con differenze di genere: gli uomini spesso per pensionamento, le donne per motivi di cura (soprattutto figli per i migranti, anziani per gli italiani). Fra le aspettative in ordine al posto di lavoro ideale stabilità e retribuzione sono le priorità principali, seguite dalla vicinanza alla residenza, mentre allo Stato si chiedono salario minimo, sanità e sicurezza.

CAPPELLETTI: CERCARE LAVORO E FORMAZIONE E’ UN LAVORO

“Le persone che la Cgil ha intercettato- dice Valentina Cappelletti, segretaria Cgil Milano- sono esposte al rischio continuo di disoccupazione a causa delle condizioni strutturali dei contesti in cui lavorano, unite alle lacune degli interventi pubblici. Le politiche pubbliche oggi dovrebbero occuparsi del cosiddetto re-skilling, ma l’offerta di formazione adeguata si trova con molta fatica. Quindi non solo cercare lavoro è un lavoro, ma anche cercare una formazione all’altezza del proprio fabbisogno è un lavoro. L’Italia ha un tasso di occupazione che in qualche modo ‘cresce’, come in tutti i principali paesi europei, ma abbiamo un reddito reale che continua a scendere: si chiama sfruttamento. Indica il fatto che, quando le persone sono messe in condizione di lavorare, generano una produttività tecnicamente sempre superiore a quella che viene riconosciuta loro attraverso le retribuzioni. Vengono pagate meno di quanto mettono a disposizione quando lavorano”, conclude Cappelletti.

Fonte Agenzia Dire

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