Dipingere i volti scarni e severi dei contadini e delle donne opulenti del Sud.
Si doveva partecipare a un Convegno Nazionale sull’ Emigrazione, l’Assessorato al Lavoro e all’Emigrazione della Regione Puglia, era un punto forte, per il Coordinamento, interno.
L’assessore al Lavoro coinvolse alcuni dirigenti e responsabili, facendoli partecipare al Convegno assegnando ad ognuno di loro un compito Istituzionale, relazioni, verbali, contatti diretti e non, sia con le Associazioni Italiane che con quelle Estere presenti.
La Missione, in quel di Reggio Emilia, mi dette la possibilità e l’opportunità, di visionare la mostra d’arte, del famoso pittore figurativo, Domenico Cantatore, nato a Ruvo di Puglia il 1906, una personale, che si teneva, nelle sale del Palazzo di Diamante di Ferrara, coordinata e voluta, dal famoso critico d’arte, Franco Farina.
La mostra, sarebbe stata presentata da Alberico Sala, che dando un validissimo giudizio critico e artistico alla stessa, fu quasi paragonata ad una antologica, non a caso una delle prime opere, un olio, datata 1939, molte dell’anno 1950, sino a tutto il 1980, un anno prima della personale a palazzo di diamanti.
Un’emozione mai provata prima, un mio conterraneo, un’artista senza nessuna accademia alle spalle, un puro, un autodidatta, nato in quel di Ruvo di Puglia, piccolo paese agricolo, dell’entroterra Pugliese, che in quei giorni, tra febbraio e aprile del 1981, esponeva le sue tele, nelle famose sale, dove solo i grandi, potevano postare le proprie opere.
Volevo trovare uno scricciolo di tempo, per visionare i trentadue oli, i settanta acrilici, su tela o faesite, i venti acquerelli e guazzi, adeguatamente rappresentati, nei diversi periodi di esecuzione.
Un tormentone il mio, con il corpo seguivo il Convegno sull’ Emigrazione, mentre con la mente, spesso e volentieri mi assentavo e sbirciando attraverso i ricordi, rivedevo alcuni quadri visti velocemente sulle riviste d’arte, che giungevano da Parigi, dove il maestro spesso si trasferiva per lavoro.
Conoscere un vero maestro dell’arte con la A maiuscola, per me, emozione unica. Sulle grandi tele, balzavano agli occhi, tratti tumefatti corrosi dal vento e dal sole, le grosse mani, strette tra loro, quasi avvinghiate alla vita, mani rattrappite, piedi scalzi, callosi e sgraziati, dove tra le dita, ci sorprende, un piccolo grumo di terra, dall’apparenza ancora umido, che per la pioggia, si era s’ incuneato tra gli spazii interditali.
Gli occhi socchiusi, che si riparano dal sole, dietro ciglia serrate, coppole calcate sulla testa, per ripararsi dal rovente sole d’agosto, traini, carichi di cesti colmi d’uva nera, contadini, dai volti cotti dal sole, bocche aperte, senza denti o con spezzoni di denti neri, labbra raggrinzite e segnate dai tagli dei fili d’erba.
Barbe incolte, dove il sudore rende lucido il pelo, unghie nere e incarnite, sepolte da grammi di terra, la nuca nera e sudata che contrasta, con il biancastro petto nudo e senza peli dei contadini.
Sulle tele, corpi che indossano squinternate giacche, uomini coperti da abiti, le cui pieghe non pieghe, scendono a coprire corpi malformati, non dalla natura, ma per lavoro e dalla fatica minorile.
Non a caso gli abiti, mal coprono i corpi ingobbiti, casualmente ma solo per caso, riescono a coprire le scheletriche ossa di fanciulli adulti, coprendo parzialmente il difetto fisico del fanciullo, mentre nell’adulto, ne altera l’età, divenendo vecchi, senza essere tali, mentre ampie giacche scendendo sulle spalle sciancate e ingobbite degli anziani, le coppole nascondono gli occhi, che diventano fessure mobili al sole.
I vecchi, assopiti sulle panchine sembravano sgangherate grucce, appesse in antichi e tarlati armadi, pronti per essere bruciati, nei grandi falò del quindici agosto.
Giovani contadini, dalle taciturne figure, che si stagliano lungo un percorso immaginario, nei tipici viottoli della campagna pugliese, dove a ridosso delle case appena affrescate, con la bianca calce, si ode la voce di una giovane donna che “ninna” il proprio piccolo appena nato.
Sulle sue tele, l’artista Domenico Cantatore, descrive figure di compaesani, che ferme nella sua memoria, si affacciano, quasi filmicamente, momento dopo momento, e ne coglie nel corpo e sul volto, la stanchezza del lavoro, descrivendo dipingendo il soggetto in posizioni diverse, non è facile leggere il dolore e la fatica sui volti dei contadini del Sud, se una lacrima scivola tra le rughe di un viso rugoso, è solo una goccia di sudore, che scende a rinfreascare il volto.
L’artista, Domenico Cantatore, coglie il composto dolore della gente del Sud, un dolore il nostro, che non coinvolge il corpo, ma scruta solo minuziosamente i volti e gli occhi, che si offrono alla creatività dell’artista essere un accorato pianto, ma una attestazione, che senza essere un accorato
lamento
Tre, solo tre giorni, colmi d’incontri, di riunioni, d’impegni diversi, senza poter rubare due ore, per fermarsi a rimirare in quelle grandi sale le opere del maestro Domenico Cantatore, tre giorni a Reggio Emilia,
Uno spazio limitato nel tardo pomeriggio, dopo una mattinata dedicata all’evento, una visita al Duomo romano-gotico lombardo del 12° secolo riservando il pomeriggio del giorno dopo a una visita al Palazzo di diamante
Una mostra a Ferrara
Nelle brevi e strette strade assolate dei paesi del Sud, ancor’oggi, nella penombra delle case abbacinate dal sole, immobili figure, esili e taciturne, si stagliano sui muri e fanno ombra, i volti severi e l’eterna malinconia negli occhi, che guardano lontano, in special modo delle donne in attesa, di chi forse non tornerà più.
Volti retinati da rughe trasversali, che s’incrociano al mento, dove spesso nell’incavo naturale si ferma una lacrima, che silenziosa e involontaria scivola lentamente dalle pupille socchiuse, che nascondono ancora sogni mai realizzati.
Forse gli occhi si chiudono, per riparare l’iride dalla luce violenta del sole, che colpisce la fragile pupilla.
Anna Sciacovelli