Nasce a Roma il 14 giugno 1914.
Un pomeriggio del 1950, Irene passeggiava tranquillamente per il Parco Avenue a New York, portava un cappellino ultima moda di Fath e indossava un tailleur della stilista italiana Fabiani.
“Dove l’ha preso, di chi è?”. Le chiese una signora anziana fermandola, con aria distaccata e una certa sfacciataggine. Era Diane Vreeland, direttrice di Harper’s Bazar.
Fu così che iniziò la fortuna della moda italiana negli Stati Uniti e l’ironica collaborazione di Irene Brin, giocatrice di talento e coraggiosa scommettitrice sulla vita, a quella rivista le cui firme erano – tra l’altro- Truman Capote, Carson McCullers, Cartier Bresson e la cui influenza era decisiva per la mescolanza dell’alta Moda con l’avanguardia culturale, tra costume per pochi e innovazione anti conformista.
Le sue recensioni sulle sfilate di Federico Forquet, di Emilio Pucci e delle sorelle Fontana, in un periodo dove il concetto del made in Italy era inesistente, poiché la moda era solo francese, servirono come trampolino di lancio per il famoso defilè del 1951 in casa del marchese, Giovanni Battisti Giorgini, che diede inizio alla tradizione fiorentina a Palazzo Pitti.
Cattolica praticante, socialista, appassionata divorzista leggeva almeno un libro il giorno ”con la voglia di identificare l’aria del proprio tempo nelle cose marginali o mediocri che sono l’esperienza di tutti più che negli altri eventi storici, teatro, dei leaders”. L’arroganza e l’allegria erano la sua divisa, parlava cinque lingue e viaggiò molto seguendo anche il marito nella guerra in Jugoslava e durante il bombardamento in Sicilia. Lavoratrice instancabile, scriveva ovunque buttandoci anima e corpo; anche a letto, in tassì e nella vasca da bagno come la fotografò Kanin Rodkai nel 1951 pe Happer’s Bazar e come la ritrasse, scherzosamente Steinberg, lo stile di Irene Brin era famoso, deplorato dal moralismo marxista, irriso dal populismo dell’epoca, imitato negli anni Sessanta della provincializzazione italiana: un linguaggio asciutto, condensato, esatto e insieme brillante, eccentrico, spiritoso; una scrittura chiara, bella, nervosa, con riferimenti culturali precisi. Una formazione non provinciale, cosmopolita e lo sguardo analitico capace di cogliere nelle persone e nei dettagli, l’eloquente esemplarità del tempo, di conservare il costume per la Storia.
Irene Brin era lo pseudonimo di Vittoria Maria Rossi, datole da Leo Longanesi, all’inizio della sua carriera e collaborazione con la rivista Omnibus.
Divenne quasi la sua vera identità, anche se i nomi d’arte scelti saranno numerosi quando le molte facce della sua personalità che dominavano e sbaragliavano tutti con opinioni a sorpresa (1932 Marlene, ‘34 Oriane, ‘36 Mariù, ‘38 Marina Turr e GeraldinaTron, Maria del Corso, ’40 Vida, Ortensia, Contessa Clara, signora d’O, Cecil Alighieri).
Nata nel 1914 a Sasso, una cittadina vicino a Bordighera, era figlia di un Generale dell’esercito italiano e di madre ebrea austriaca, che le insegnò ad amare profondamente l’arte e la letteratura. Di grande bellezza, elegante, eccentrica, aristocratica, formidabile lettrice, lavoratrice instancabile, preferì la stampa alla produzione letteraria.
“ Irene era una donna narcisista, egoista della letteratura, il suo servizio altruista nel giornalismo, la presunzione dell’immortalità, la sua certezza, della contemporaneità con gli altri, nell’espressione romanzesca di sé, scrivendo un romanzo personale, dei personaggi della realtà”: A un ballo all’Hotel Excelsior di Roma, aveva avuto modo di incontrare un giovane ufficiale, nato in Eritrea, Del Corso Gasparo.
In seguito a una conversazione su Marcel Proust e dopo solo quattro incontri, decisero di sposarsi. Lui era un appassionato d’arte, gran collezionista, lettore curioso e viaggiatore entusiasta. Insieme girarono il mondo con occhi anticonformisti, aperti ad ogni diversità culturale per poi fermarsi a Roma nel 1943.
Gasparo, in fuga dall’esercito per evitare di fare la carriera militare, aveva portato a casa trentasei persone, tutte latitanti per varie ragioni.
L’unico sostentamento erano le traduzioni d’Irene, che però diminuivano man mano che lei interrompeva i rapporti con gli editori passati sotto il controllo dei tedeschi. Per incassare qualcosa decise di vendere i regali di matrimonio. Oltre a una bellissima borsa di coccodrillo, mise in vendita anche qualche disegno di Picasso, Matisse, Morandi e una grande collezione di libri d’arte.
Imparò il mestiere di gallerista d’arte alla scuola di Federico Valli, che negli ultimi anni della guerra ne aveva aperta una di fronte all’attuale cinema “Fiamma”, “La Margherita”, mentre Gasparo aiutato da Alberto Savinio, che gli aveva procurato nel frattempo una falsa identità, la sosteneva trovando materiale e compratori. Un giorno passò di lì un ragazzo che le offrì dei bellissimi disegni, venduti nella giornata. Si chiamava Renzo Vespignani.
Da quel giorno, Irene si manifestò non solo una brillante scrittrice ma anche una straordinaria donna d’affari. A guerra conclusa, ideò insieme al marito la galleria d’arte romana, al 146 di via Sistina, “l’Obelisco”, che attirò le avanguardie culturali del momento, importò opere di Robert Rauschenberg, Francis Bacon, David Hockney, Alessander Calder, Saul Steinberg e molti dell’avanguardia brasiliana, tra cui Flavio de Carvalho e Sergio Camargo.
Irene, scrisse per un’incredibile quantità di testate di giornali, mise in atto un’idea brillante, forse la più divertente, quella di raccogliere in un dizionario di “Usi e Costumi del 1920- 1940”, le voci più varie le mode eccessive, trovarono spazio tra le sue pagine.
Muore a Bordighera, nella sua casa natia, il 31 maggio 1969, con grande desolazione del marito.
Anna Sciacovelli