Tra il 1200 e il 1700 nell’antica città di Bari, oggi denominata Bari Vecchia, vi erano tante piccole botteghe, dov’era facile trovare donne anziane e giovani ragazze, intende ai lavori manuali.
Ricami d’ago, retinato, merletti a uncinetto, lavori a fuselli, ricamo in oro e argento, su giacche e corpetti, corti, lunghi, attillati oppure svasati chiamata anche Redingote.
Tra le tante attività manuali, in special modo emergevano manufatti: tessitura, ricamo in oro, sfilato siciliano, smerli, trine e lavori d’ago su telai e quant’altro per abbellire la casa e ornare gli abiti.
Certo un lavoro, che si svolgeva spesso nel perimetro limitato di una stanza della casa paterna, o in un soggiorno maritale dopo tra bimbi e bambinaie atte a seguire i piccoli.
Era pratica comune, mandare le proprie figlie a scuola presso le Suore, dove era facile rubare il mestiere di ricamatrice e dove l’ingegnosità delle suore più anziane emergevano, donando alle ragazze più brave, la possibilità di lavorare in proprio nelle loro case, senza essere costrette a lavorare in campagna o presso famiglie benestanti, come donne di servizio, sguattere o come fantesche.
Ida liberazione dai lavori pesanti, rendeva la donna libera di creare abiti e ricami particolari inventando intagli tra tessuto e tessuto, sovrapponendo lembi su lembi, dando così spessore all’abito.
Non a caso tra i prodotti più rinomati, dell’antico artigianato locale, erano il pizzo barese e quello armeno, che ritroviamo citati in un antico documento o per meglio dire in un atto del 22 gennaio del 1385.
Nella descrizione menzionata in lingua latina, ne fa testo il documento è descritto un corpetto, un corsetto attillato, di panno di oro filato, con maniche scarlatte e rifinite con pizzo di Bari.
In un altro documento datato 17 febbraio 1397, cita il riferimento al pizzo di Bari con bottoni in argento, posti in dette maniche e rifinite con pizzo di Bari.
Molti sono gli esempi che se ne potrebbero addurre e ancora tanti se passiamo in rassegna, spulciando nei capitoli matrimoniali rogati dai diversi notai di quel tempo.
In un istrumento notarile, del 4 dicembre del 1663, rogato dal notaio Stefano Rinaldi di Bari, è descritto in modo approfondito e serve a farci capire meglio, un metodo lavorativo dell’epoca.
Si parla di un certo Antonio Marcostenti, capitano di un vascello appartenente al chierico Nicola Tresca, il quale accompagnò da D. Nicola Gallitto, cancelliere della Curia Arcivescovile una figliola di circa nove anni di nome chiamata Elisabetta, che dice di essere nata in Serigo fortezza di levante perché detto cancelliere si occupasse di mandarla alla maestra e farle apprendere ogni buona arte manuale, quale di fare pizzilli et lavori di ricamo.
Possiamo dire a gran voce, che nella Città di Bari, vi era un fiorente artigianato manuale e che attraverso le antiche scuole di pizzo ha tracciato un solco prezioso.
La succitata tradizione riconosce e assurse a considerevoli livelli all’inizio del Novecento, quando un gruppo di dame del Patronato, San Nicola di Mira, fondò una scuola di pizzo sostenuta dall’entusiasmo del Gran Priore Deriso Piscitelli Taeggi che essendo stato in precedenza, cultore appassionato di paleografia artistica presso l’abbazia di Montecassino, si era impegnato nel creare modelli tratti dalle miniature dei codici liturgici longobardi.
Quel filo particolare, che era impiegato nel lavorare il merletto lavorato a uncinetto, a fuselli o con il semplice ago da cucire.
Pizzi e merletti, che ornavano capi di vestiario e biancheria da letto, tende e tovagliato, quel merletto lavorato a uncinetto a fuselli o con semplice ago, dalle giovani donne, dalle mani veloci e instancabili, come perfette macchine da ricamo, hanno lasciato un segno indelebile nella nostra Città. Il famoso “Pizzo di Bari”
Anna Sciacovelli